A quattro anni da Senago, un comune della periferia milanese, sono arrivata a Milano. A quattro anni mi sono “affacciata al mondo dell’arte” facendo un ghirigoro, bellissimo e profumato, con uno spicchio di mela, verde, su tutto il perimetro dei muri della casa nuova, mentre i miei genitori erano impegnati nel trasloco. Ricordo ancora l’emozione del momento in cui, terminato “il lavoro”, mi sono soffermata a guardarlo; ricordo il compiacimento e la soddisfazione nell’osservare quella linea ondulata di un intenso verde scuro sulla parete di un verde pallido. E il profumo di mela che per via dello strofinio sulla parete si era ridotta ad un minuscolo pezzetto. È un ricordo nitidissimo, che oggi ben mi spiega il fare di sempre.
La mia famiglia abitava al primo piano di una palazzina costruita dalla Banca Nazionale Del Lavoro presso la quale lavoravano tutti i papà. Noi bambini, per lo più coetanei, eravamo tutti amici: si giocava in cortile, nelle ore in cui veniva consentito, nelle altre ci si sentiva più liberi correndo e gridando sguaiatamente sul marciapiede di casa. Erano giochi di gruppo, che vedevano l’alternarsi di penitenze, vinti e vincitori cosicchè tutti rientravano a casa gratificati, felici e contenti. Non avevamo tanti giocattoli, più spesso si inventavano giochi/giocattolo, molti dei quali venivano costruiti con avanzi di fortuna, trovati in casa o per strada. In verità era più il tempo passato a progettare il gioco e il giocattolo che l’effettivo suo utilizzo successivo. Ma questo tempo zeppo di idee a cui si dedicavano entusiami ed energie infinite, lo ricordo con un’emozione particolare.
Al termine dell’anno scolastico, dopo le pagelle e gli esami di seconda e di quinta iniziavano le vacanze. In luglio, si partiva per la colonia, offerta dalla banca ai figli dei dipendenti. Non si poteva scegliere: i maschi in montagna a San Martino di Castrozza e le bambine al mare, a Riccione. Si partiva con un pullman, tutti insieme, per trascorrere un mese in cui l’unico contatto con la famiglia era dato da una lettera. Era perciò molto importante il momento della distribuzione della posta. Mentre scrivo riprovo la stessa ansia che suscitava allora l’attesa di sentir pronunciare il proprio nome. Tutti intorno alla educatrice si sperava di essere chiamati per leggere qualche notizia da casa, per assaporare l’affetto famigliare. Chi riceveva posta, dopo la lettura, scambiava con gli altri tutto. Era un parlarsi agitato, alcuni piangevano invocando “mamma”, altri li consolavano mentre altri ancora si davano un atteggiamento indifferente e disinteressato e si allontanavano per giocare.
Ho un ricordo indelebile di questi momenti: non ero tra coloro che ricevevano posta di frequente e proprio questo era spesso motivo di tristezza. Il giorno in cui anch’io ricevevo posta provavo un’emozione che si protraeva per tutta la giornata. L’arrivo della “lettera” era sempre un momento sorprendente. Ritirata la busta, rettangolare, piuttosto piccola, quasi più simile a quella di un biglietto d’auguri, la aprivo trepidante e curiosa, a volte provando un senso di invidia per le mie compagne che nella busta dalle dimensioni maggiori, trovavano un foglio grande. La busta piccola mi rimandava quasi un senso di disinteresse, una sorte di trascuratezza da parte della mamma che mi “scriveva poco".
Non ho mai ricevuto una busta normale. Nella mia piccola busta però c’era raccolto il mio mondo, il riassunto in immagini della mia casa, della mia famiglia. L’ho concretizzato solamente molti anni dopo. C’era una mamma emozionata e attenta perchè mi giungesse l’atmosfera di casa, perfino nei profumi. L’ho capito solo da adulta, un giorno, d’improvviso, mentre mi dedicavo con passione alla realizzazione di un libro d’artista. La mamma confezionava con fogli di quaderno a quadretti, piegati in due o in quattro, un libretto piccolo piccolo, con le pagine cucite con filo da ricamo colorato, ognuna delle quali conteneva una breve frase e “cose” che sapevano di casa: una fogliolina secca del vaso sul balcone, il disegno di un mazzolino di fiori, una bambolina con avanzi di stoffe che ben conoscevo, casette di montagna come solo lei sapeva ritrarre, con tegole rosse disegnate una ad una, fili di lana incollati che come strade colorate, correvano lungo le pagine collegando un disegno al successivo, oppure che contornavano il profilo del foglio. Altre volte le paginette riportavano nella parte bassa disegni di greche che ne definivano cromaticamente i bordi. Il libretto di mamma… Il tesoro da tenere in tasca tutti i giorni.
A Natale si ricevevano nuovi giocattoli, regalo del Babbo-Natale-banca a noi bambini che a volte li facevamo diventare oggetto di baratto e scambi; a undici anni diventava importante capire il valore del denaro e allora si aveva diritto ad un salvadanaio, in metallo, a forma di cassaforte, con una chiavetta che veniva custodita dalle mamme, mentre a dodici ci spettava il regalo più importante, la tanto desiderata bicicletta. Dopo nulla: si era diventati grandi.
I genitori erano tutti colleghi di lavoro, quindi le mamme, per lo più casalinghe, si frequentavano conversando e non sempre amichevolmente! Capitava talvolta che la mamma scendesse al piano di sotto del nostro appartamento per incontrasi con l’amica vicina, il cui figlio aveva cinque anni più di me. Di questi momenti ho ricordi piacevoli e precisi, commuoventi. Uno in particolare sicuramente è divenuto determinante nelle mie scelte di vita. Avrò avuto sei anni. Le due amiche come sempre chiacchieravano fitto fitto, parlavano di cucina, di lavoro e di noi bambini, io ascoltavo tranquilla ma a volte, lo ricordo benissimo, percepivo la sensazione che mi volessero escludere. Era però il preludio al momento che per me si configurava più entusiasmante. La signora Bruna prendeva una sedia e la avvicinava alla credenza, ponendo lo schienale contro il mobile e, invitandomi poi a salirvi, apriva un cassetto, dicendomi: “Guarda quante belle cose!” In quel cassetto io mi ci tuffavo. Io lì mi perdevo… una figurina di calciatori, un pupazzetto, le automobiline di Giorgio, una cartolina curiosa, di quelle che pigiate suonavano, qualche palloncino e tanti bottoni. La signora raccoglieva in quel cassetto bottoni di vario tipo, di ogni forma e colore, di dimensioni diverse, anche molto grandi o di madreperla, con luccichii irresistibili. Io me ne stavo silenziosa e incantata ad osservare tutto, indifferente ai loro discorsi, ogni tanto chiedendo spiegazioni sull’uso o sul significato di ciò che trovavo. Nel cassetto vi era sempre riposta una scatolina dorata, cilindrica, lunga una quindicina di centimetri: conteneva delle piccole caramelle di zucchero, della grandezza poco maggiore di un pisello, erano coloratissime e trasparenti per consentire la visione del rosolio contenuto all’interno. Quelle caramelline per consuetudine diventavano il premio, da me graditissimo, nel momento dei saluti. La signora Bruna inconsapevolmente con il suo cassetto delle cianfrusaglie ha lasciato in me un’impronta indelebile, ha posto a dimora un piccolo seme che nel tempo si sarebbe rigenerato.
Sono molte le persone, i maestri, il cui incontro ha lasciato un segno nel mio sentire, ma quello con la signora Bruna credo sia stato il primo zeppo di significati.
Il cassetto delle cianfrusaglie
E poi è giunto il tempo in cui ho avuto una casa mia. Da subito, senza averlo programmato, ho individuato un cassetto che avrebbe avuto il compito di contenere quelle cose che non si sa mai dove mettere. Che si vogliono tenere. Un temperino, un pezzo di spago, una vecchia e cara biglia di vetro, un appunto con qualche verso poetico, una pallina da ping pong, il ritaglio di uno spartito musicale, un ago della lana, un avanzo di stoffa, un… Insomma un contenitore per tutto ciò che non si può buttare perché potrebbe ancora tornare utile, o anche no, un cassetto dove riporre qualsiasi cosa che possegga ancora qualcosa da dire, o che si può riutilizzare per un uso non funzionale ma creativo o, più semplicemente, un cassetto per quelle cose che non so dove mettere e che non mi va di mettere al loro posto.
Ho cambiato tre volte casa da quando sono sposata e mai sono riuscita a liberare il cassetto delle cianfrusaglie. Anzi, nel tempo, i cassetti sono diventati due, uno piccolo, dove ci si può trovare di tutto dell’inutile, e uno più grande destinato a ciò che mi può servire nel lavoro d’arte. Per meglio spiegarmi potrei dire che in questi cassetti vi trova posto tutto quello che alla domanda “Cosa posso farci con questo?” risponde con un “Mi serve!”. Senza senso alcuno.
Nel trascorre degli anni la mia attenzione è sempre stata richiamata da una molteplicità di cose varie, tutte rispondenti con vivacità e stupore alla consueta domanda, cose che quindi hanno beneficiato e godono tutt’ora del privilegio di essere conservate. Complice anche la convinzione che non esistano cose che non possano più servire.
Per un po’ di anni tutto ha funzionato a meraviglia. Ma col tempo si è andato evidenziando un altro dilemma: dove sistemare oggetti ingombranti, dalle diverse dimensioni, quelli che nel cassetto non potevano essere contenuti? Così, a malincuore, ho eliminato abiti, coperte e borse dall’armadio in camera da letto, ricavandone uno spazio perfetto per tutto ciò che, pur voluminoso, ancora gode di qualche merito. Le cose “da tenere” negli anni si sono ammucchiate in un ordine sparso e preciso, un ordine dettato non dalla casualità, come a prima vista potrebbe apparire, ma dal fine a cui possono essere destinate.
Il certo è che esiste nella mia mente uno spazio magico che sa dare corpo e concretezza a tutte quelle fantasie che gli oggetti mi suggeriscono. Questo pensare affascinante e libero di girovagare tra mente e cuore, tra ricordi di passato, prossimo o remoto, o suggestioni del presente, sveglia memorie infantile, circostanze ed equilibri odierni, più o meno precari, capaci di rivelarmi talune motivazioni al fare e sollecitare la continua metamorfosi del lavoro stesso. Di fatto, lo studio dove ora scorrono le mie ore di lavoro è diventato un grande stimolante cassetto, lo spazio dove vive costante e vigile un pensiero intessuto dal “cosa potrei farci con questo”, uno spazio denso di immagini e testimonianze efficaci a dilatare il mio sentire e la percezione del reale, trasformandola nella ricerca consapevole di una forma.
Ecco… Vivo e lavoro in un “cassetto” di cianfrusaglie, solo più grande di quello che mi apriva la signora Bruna.
E mi piace.
"L'occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose." (Italo Calvino, Le città Invisibili).